Psicologa Roma by

 

La mediazione familiare è un intervento professionale di cui può usufruire la coppia separata o in via di separazione, qualora espliciti il bisogno di un tempo e di uno spazio appositi per pensare alla riorganizzazione familiare. Durante il percorso, i partner sono incoraggiati e guidati dal mediatore -terzo neutrale- ad elaborare gli accordi che meglio soddisfino i bisogni di tutti i membri della famiglia, con particolare riguardo all’interesse dei figli. L’obiettivo dell’intervento è dunque molto concreto: la messa a punto di un progetto di riorganizzazione delle relazioni genitoriali e degli aspetti materiali dopo la separazione o il divorzio. Gli accordi presi in sede di mediazione dovranno poi essere presentati al giudice per la ratifica ufficiale necessaria.
La Mediazione Familiare si propone quindi come una nuova e specifica risorsa volta a sostenere i genitori in conflitto durante la fase della separazione e del divorzio. Non a caso, nasce e si sviluppa in un contesto storico-sociale nel quale la co-genitorialità rappresenta un ideale da raggiungere, e la giurisprudenza (legge 54/2006) stabilisce l’affido condiviso come modalità elettiva di affidamento, dando al giudice il compito di valutarla prioritariamente.

Relativamente agli aspetti relazionali, i temi più frequentemente discussi sono:
l’affidamento dei figli, l’analisi dei bisogni di genitori e figli, la continuità genitoriale, il calendario delle visite del genitore non affidatario, le vacanze, la regolazione dei tempi e dei modi di frequentazione tra i figli e i componenti delle famiglie d’origine, le scelte educative, la comunicazione della separazione ai figli, la comunicazione tra i genitori, la relazione con gli eventuali nuovi compagni dei genitori, problematiche legate alla famiglia ricostituita, ecc….

Rispetto alle questioni economiche, invece, risultano oggetto di negoziazione tematiche quali:
l’assunzione degli impegni economici per i figli, la determinazione dell’assegno di mantenimento a favore del partner, l’assegnazione della casa coniugale, la divisione dei beni comuni, ecc….

E’ importante sottolineare che, in ogni caso, è la coppia che sceglie le problematiche da negoziare e gli accordi. In altre parole, il mediatore è responsabile del processo che dirige, ma non dei suoi contenuti, in quanto l’obiettivo più importante è che i due ex-coniugi si riapproprino delle proprie competenze genitoriali e decisionali, senza deleghe. Solo così gli accordi presi avranno la possibilità di resistere alla prova del tempo, in quanto realmente condivisi. Troppe, e troppo dolorose per tutti gli attori coinvolti, le storie di separazioni giudiziali, o consensuali che – poggiando su una conflittualità sottovalutata- non reggono la prova del tempo e il confronto con la realtà.
Vorrei invitare a riflettere sui vantaggi che, invece, possono derivare dal seguire un percorso di mediazione familiare. Innanzitutto a livello individuale:
1. maggior stima di sé e dell'altro
2. espressione delle emozioni ed elaborazione del lutto della separazione
3. ridefinizione della propria identità personale
4. analisi delle conseguenze personali derivanti dalla separazione.
Inoltre, a livello relazionale:
1. miglioramento delle capacità comunicative al di là del conflitto
2. riconoscimento dei bisogni di genitori e figli
3. continuità genitoriale e responsabilizzazione del reciproco ruolo genitoriale
4. possibilità di elaborare gli accordi autonomamente (senza deleghe all’autorità giudiziaria) e in modo paritario (senza imposizioni del genitore economicamente o emotivamente più forte).
Infine c’è l’importante e inestimabile vantaggio di vedere tempi e costi (economici ed emotivi) ridotti rispetto alle lunghe e dolorose controversie giudiziarie.

Inoltre, una mediazione ben riuscita svolge anche una funzione preventiva rispetto a future conflittualità, in quanto si propone come luogo di acquisizione, potenziamento e sperimentazione delle capacità negoziali della coppia: quando emergeranno esigenze e circostanze diverse da quelle iniziali (il che è inevitabile, dato che anche il ciclo di vita della famiglia separata va avanti), i due ex-partner saranno in grado di trovare nuove soluzioni autonomamente, con flessibilità.
Un’ultima riflessione riguarda la tangenzialità della mediazione familiare rispetto ad altri tipi di intervento, da cui peraltro si distingue per una serie di importanti aspetti. In particolare, la mediazione
1) non è una terapia
in quanto è centrata sul presente e sul futuro piuttosto che sul passato, sebbene utilizzi alcune competenze e strategie proprie del setting clinico. Inoltre, è un intervento molto strutturato, circoscritto nel tempo (in genere si articola in 8-10 sedute) e con obiettivi pre-definiti (il raggiungimento di accordi specifici, elencati nel “contratto di mediazione” sottoscritto dal mediatore e dai due partner prima di aprire la fase negoziale).
2) non è una consulenza tecnica
in quanto non si pone l’obiettivo di fornire al giudice informazioni sui rapporti esistenti tra il minore e i genitori, né di definire quale sia il migliore genitore affidatario, per cui non produce diagnosi sulle figure genitoriali, né di tipo psichiatrico, né psicopatologico, né relazionale. In altre parole, manca nella mediazione l’aspetto valutativo-diagnostico;
3) non è una consulenza psicologica, né legale
in quanto il mediatore non elargisce consigli, bensì stimola e guida i due partner alla ricerca di opzioni e soluzioni adeguate.

 

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“La separazione non è tanto un’opera e un lavoro individuale,
quanto piuttosto un’impresa di coppia.
Come insieme le persone si sono legate,
così insieme hanno il compito di separarsi” (V. Cigoli)

 

La nascita del primo figlio fa entrare la coppia in un nuovo stadio del proprio ciclo vitale e sancisce in un certo senso in modo definitivo il passaggio dei coniugi nell’età adulta. Si tratta dunque di un cambiamento con un notevole impatto psicologico, sia sul piano individuale che di coppia (senza trascurare l’effetto più ampio sul sistema della famiglia allargata in cui compaiono ruoli nuovi per zii, nonni, etc.). Nella rappresentazione sociale la coppia diventa solo in questo momento una “vera” famiglia, legata in modo definitivo da un ruolo -quello genitoriale- che è per sempre.
Come è facile immaginare, il nascituro è quindi caricato di grandi aspettative e, specie quando arriva a tarda età per la donna (che ha magari dato spazio fino a quel momento e con fatica alla propria realizzazione personale e lavorativa), diventa facilmente la rappresentazione di un “bene prezioso”, quasi unico e irripetibile.
In un contesto emotivo di questo genere aumentano anche le aspettative che i neo-genitori (e in particolare la madre) hanno su di sé e sulla propria “capacità” di essere adeguati nel nuovo ruolo.
Ovviamente le risorse a disposizione di ciascun genitore variano molto a seconda del contesto. In ogni caso, anche nelle situazioni “normali”, possono non essere sufficienti a contrastare adeguatamente tale pressione: per esempio perché nel passaggio dalla famiglia patriarcale a quella nucleare è quasi venuta meno per la donna la possibilità di avere nella famiglia estesa un contenitore per le proprie angosce e un sostegno pratico. Capita quindi spesso che la neomamma si trovi sola ad affrontare un momento cruciale e sconosciuto della propria vita, in cui cambia il proprio corpo, nasce un nuovo ruolo, etc.
Inoltre, sebbene attualmente la nascita di un figlio sia quasi sempre il risultato di una scelta consapevole e una forma di realizzazione personale da parte dell’adulto, non vanno dimenticate situazioni differenti in cui la gravidanza non è desiderata e cercata, oppure si colloca in un contesto familiare di particolare fragilità che rende ancora più faticoso -per le diverse figure coinvolte, non solo per la madre- affrontare le sfide che questa fase di passaggio pone: pensiamo, per esempio, a famiglie monogenitoriali, a contesti di estremo disagio socio-economico, oppure a situazioni in cui uno dei due genitori è molto periferico e assente o estremamente inadeguato nella sua funzione genitoriale (magari perché in carcere, tossicodipendente o affetto da un disturbo psichico importante).
E’ chiaro che in queste circostanze aumentano i cosiddetti “fattori di rischio” mentre diminuiscono i “fattori di protezione”, ossia le risorse a disposizione del sistema-famiglia. Ovviamente è importantissimo focalizzarsi su quest’ultime, individuarle e promuoverle.
In quest’ottica, lì dove il disagio sia importante e la rete familiare e sociale di sostegno (anche solo momentaneamente) non sufficienti a contenerlo e trasformarlo, è utile rivolgersi all’esterno, sia esso rappresentato da un libero professionista o dal consultorio di riferimento.
Difatti, per esempio, un intervento precoce sulla relazione caregiver-bambino può essere estremamente importante, andando a ridurre lo stress e il conflitto e rafforzando il processo di sviluppo nell’interazione, lì dove (per ragioni differenti, di cui alcune ipotizzate sopra) vi siano scambi interattivi caratterizzati da modalità di cura incoerenti, instabili o scarsamente sensibili: il genitore può essere aiutato nella difficoltà a sintonizzarsi con il proprio figlio e i suoi bisogni, nella gestione del senso di frustrazione e incompetenza che può avvertire di fronte ad atteggiamenti di rifiuto del bambino, etc. Potrà così sperimentare che la genitorialità è una competenza che si costruisce (e non acquisita per dna!) attraverso un processo circolare, in cui cioè i figli non hanno un ruolo passivo, ma di scambio. Inoltre, poiché attraverso il rapporto con il proprio bambino si rivive la propria infanzia e riemergono i modelli di attaccamento sperimentati con le proprie figure di riferimento, è possibile lavorare anche su questo aspetto (per esempio in un setting psicoterapeutico).
Quando possibile l’intervento sarà rivolto ad entrambi i genitori per dare loro un sostegno rispetto ad eventuali difficoltà nella gestione di alcune sfide - i cosiddetti “compiti di sviluppo” - poste dalla nascita di un figlio:

  • stabilire confini chiari tra il sistema coniugale e quello genitoriale;
  • prendersi cura del bambino;
  • fornire un valido modello di attaccamento affettivo ed educativo al figlio;
  • ristrutturare le relazioni con i propri genitori;
  • individuare le diverse regole del ruolo e delle funzioni dei nonni e dei genitori;
  • ridefinire i rapporti con l’ambiente esterno (lavoro, amicizie) in base alle esigenze della famiglia.

 

Le possibili aree critiche sono dunque tante, ma altrettanti sono i possibili percorsi di aiuto da attivare per affrontare le difficoltà e riattivare le risorse presenti nel genitore e nel contesto di appartenenza.

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